Dall'era paleocristiana
fino a oggi, l'arte a servizio della Chiesa ha descritto il "prodigioso
duello" di cui parla l'inno, ora in maniera astratta, ora in modo
allusivo, presentando Cristo crocifisso in vesti regali e sacerdotali, o
con gli occhi aperti, o sostenuto (rialzato) dal Padre.
Pienezza della fede in Cristo è
accoglienza della sua risurrezione e del potere che ne promana: è
l'atto d'adesione intellettuale ed esistenziale al paradosso di
un'umiliazione che sfocia in gloria, di una morte che si trasmuta in
vita. In tale adesione consiste infatti la sapienza cristiana, e san
Paolo - nel medesimo passo in cui ricorda ai credenti di Corinto d'aver
predicato loro il vangelo senza argomentazioni filosofiche, ritenendo
"di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi
crocifisso" (1 Corinzi, 2, 2-4) - afferma comunque di parlare
" sì, di sapienza, ma di una
sapienza che non è di questo mondo, divina,
misteriosa, che è rimasta nascosta" così che "nessuno dei dominatori di
questo mondo ha potuto conoscerla", perché (dice) "se l'avessero
conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria" (1
Corinzi, 2, 7-8).
Paolo
mutua questa frase "Signore della gloria", da un antico inno ebraico
celebrante la traslazione dell'arca dell'alleanza dall'esterno
all'interno delle mura di Gerusalemme: "Sollevate, porte, i vostri
frontali, alzatevi, porte antiche, ed entri il re della gloria" (Salmi,
24, 7). Nel suo ragionamento, cioè, aprire la mente e la vita al
paradosso di Cristo crocifisso, risorto e glorioso è come spalancare le
porte di una città fortificata; anzi, è come demolirle del tutto per far
entrare il conquistatore vittorioso. Per Paolo "il re della gloria"
infatti è Cristo, e chi apre a lui riceve Dio, come nel salmo che
domanda, "Chi è questo re della gloria?", e poi subito risponde: "Il
Signore forte e potente, il Signore potente in battaglia" (Salmi,
24, 8).
Dalle catacombe fino a oggi, molti artisti
hanno reso visibile quest'interiore accoglienza del Risorto. Hanno
offerto cioè non evocazioni di idee teologiche, non illustrazioni di
fatti storici, ma traduzioni visive della più misteriosa, profonda e
personale esperienza di ogni cristiano e di tutti i cristiani, del
singolo credente e della Chiesa universale: l'esperienza di resa
davanti al conquistatore, di porte antiche che si alzano e si spaccano,
pur di farlo entrare. Grandi maestri di pittura e scultura hanno creato
immagini di un processo individuale e collettivo in sé "inimmaginabile",
come dice ancora san Paolo nel passo sopraccitato. Dopo l'affermazione
che gli uccisori di Cristo non avevano la sapienza derivante dalla fede,
l'Apostolo descrive tale sapie nza come l'insieme di "quelle cose che
occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d'uomo" ma
che "Dio ha preparato per coloro che lo amano" (1 Corinzi, 2,
9-10; cfr. Isaia, 64, 3); e aggiunge: "Ma a noi Dio le ha
rivelate per mezzo dello Spirito".
Le immagini del Risorto sono
pertanto visualizzazioni di ciò che "occhio non vide mai", racconti di
quanto nessun orecchio ha mai udito, appelli emotivi a una gioia mai
entrata in cuore umano se non infrangendo limiti posti dalla ragione, se
non demolendo barriere erette dalla logica, se non per pura fede. Tra
tutte le immagini che riguardano Cristo, queste infatti sono le più
religiose, le immagini che cioè inabissano nel vero mistero del
Salvatore.
Come
tutti sanno, il Nuovo Testamento non descrive l'evento
decisivo della fede cristiana, la
risurrezione di Cristo, parlando solo della scoperta della sua tomba vuota il mattino di Pasqua. In
verità non si tratta di un evento,
come il Battesimo o l'Ultima Cena, ma di un processo, un graduale
dispiegarsi di energie spirituali, morali e fisiche tale che la morte non riesce a tenere il
Salvatore nel suo amplesso. La
risurrezione è implicita nell'esistenza stessa di Gesù, possiamo dire,
perché - Verbo di Dio - "in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini" (Giovanni, 1, 4).
È già definita come traguardo nei primi tempi del suo ministero, quando
- parlando con Nicodemo - Cristo afferma che, "come Mosè innalzò il
serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio
dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna" (Giovanni,
3, 14-15). Su questo tema ritornerà dopo l'ingresso trionfale a
Gerusalemme quando dice ancora: "Io, quando sarò elevato da terra,
attirerò tutti a me" (Giovanni, 12, 32). Il processo
risurrezionale inizia veramente durante la Cena, quando - dopo aver
lavato i piedi ai suoi discepoli, dopo aver loro comandato di amarsi gli
uni gli altri come lui li ha amati, promettendo loro lo Spirito
consolatore e la pace - Cristo alza gli occhi al cielo e dice: "Padre, è
giunta l'ora, glorifica il figlio tuo, perché il figlio glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni
essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai
dato. Questa è la vita eterna, che conoscano te, l'unico vero Dio, e
colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sopra la terra,
compiendo l'opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami
davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il
mondo fosse" (Giovanni, 17, 1-5).
"E ora,
Padre, glorificami": ma, subito dopo, chi parlava fu arrestato,
giudicato, giustiziato!
Significa forse che il Padre lo ha disatteso,
non concedendogli la gloria rivendicata? La fede cristiana afferma il
contrario, proclamando che Dio gliela concessa ma come processo
paradossale, uno spiegamento di forze all'interno della debolezza, una
gloria emergente dall'umiliazione, la vita che lotta con la morte e
vince. Mors et vita duello, conflixere mirando: dux vitae mortuus
regnat vivus: sono le parole di un inno pasquale del medioevo, e
ben descrivono quest'eroica lotta al cuore dell'essere: "La morte e la
vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita
era morto, ma ora, vivo, trionfa".
Dall'era
paleocristiana fino a oggi, l'arte a servizio della Chiesa ha descritto
il "prodigioso duello" di cui parla l'inno, ora in maniera astratta, ora
in modo allusivo, presentando Cristo crocifisso in vesti regali e
sacerdotali, o con gli occhi aperti, o sostenuto (rialzato) dal Padre.
Tra le più splendide articolazioni di questo tema, vi è il monumentale Risorto
in croce di Giuliano Vangi, eseguito nel 1999 per il presbiterio
del duomo di Padova, dove l'artista visualizza il discorso escatologico
del vangelo di Luca, in cui Cristo descrive il suo ritorno con
linguaggio drammatico: "Come il lampo, guizzando, brilla da un capo
all'altro del cielo, così sarà il Figlio dell'uomo nel suo giorno",
dice, alludendo al "giorno" della Parusia, il "giorno senza tramonto",
l'"ottavo giorno" dell'eternità (cfr. Luca, 17, 24). È il testo
più adatto a quest'opera che, infatti, lampeggia, guizza, brilla.
Realizzato in un'inconsueta lega d'argento e nichel, con elementi d'oro e
bronzo, si distingue radicalmente dall'apparato decorativo del duomo e
perfino dalle altre figure di Vangi nel presbiterio, concepite in marmo
bianco di Carrara, giallo di Siena, rosso veronese, pietra tunisina
color miele e nel blu reale del Portogallo: materiali, colori e
incastri tradizionali che troviamo nella scultura tardo imperiale, in
quella della fine del Rinascimento, e nei monumenti barocchi della
stessa cattedrale padovana.
Il Cristo invece si distingue. È
avveniristico, quasi tecnologico, quest'uomo che emana luce dalla croce
"tirata come un cristallo" (al dir dell'artista): una croce alta sei
metri, la cui gamma cromatica va dal blu scuro della base (la notte in
cui l'uomo soffre e perde speranza) al "dolce color d'oriental zaffiro"
che rincuorò l'Alighieri (cfr. Purgatorio, 1, 13), e infine al
bianco limpido, incandescente della luce in cui abita il Padre.
Sono
materiali e colori moderni - qualcuno dirà "da discoteca" - e nel
contempo antichi, plasmati dall'immaginazione dei profeti, dalle visioni
nella notte del tempo. "Io guardavo ed ecco un uragano avanzare dal
settentrione, una grande nube e un turbinio di fuoco che splendeva
tutt'intorno, e in mezzo si scorgeva come un balenare di elettro
incandescente", dice un profeta d'Israele (Ezechiele, 1, 4).
Bronzo lucido e topazio, un firmamento simile a cristallo splendente,
carboni ardenti come torce agitate, il fuoco che sprigiona bagliori:
ecco l'immaginario degli inizi del sesto secolo avanti Cristo, il
linguaggio sacrale del figlio di Buzi, il sacerdote Ezechiele che, sulle
rive del Chebar, vide aprirsi i cieli (Ezechiele, 1, 1).
Questo
linguaggio visionario, che ritroviamo nel libro di Daniele e infine
nell'Apocalisse, è quello preferito da Cristo stesso, nel già citato
passo lucano e in numerosi altri passi, per descrivere il suo "giorno",
"quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi
angeli e si siederà sul trono della sua gloria" (Matteo, 25, 31).
Ed è il linguaggio in cui Vangi fa vedere i cieli aperti, il Figlio
dell'uomo che brilla da un capo all'altro come un lampo, la croce come
trono di gloria, il "giorno" del testimone fedele, del primogenito dei
morti e principe dei re della terra, di colui che ci ama e ci ha
liberati dai nostri peccati con il suo sangue, facendo di noi un regno
di sacerdoti per il suo Dio e Padre; l'"oggi" in cui Cristo "viene sulle
nubi e ognuno lo vedrà, anche quelli che lo trafissero" (Apocalisse,
1, 7). Al centro del presbiterio, dove in persona Christi il
vescovo celebra la liturgia eucaristica, l'artista cioè strappa il velo
che copre i nostri occhi, traducendo in lingua corrente un celebre
affresco del Risorto di Ambrogio Borgognone in Sant'Ambrogio a Milano,
dove Cristo proclama (in parole scritte su un drappo d'onore sotto i
suoi piedi): "Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto ma
ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi" (Apocalisse,
1, 17-18).
È significativo che questo Cristo di Vangi,
raffigurato mentre passa da morte a vita, sia stato concepito per
l'altare di una chiesa. In immagini legate alla liturgia, come nella
liturgia stessa, i credenti sono invitati a cercare, oltre ciò che
vedono, qualche cosa di più, magari non vista perché ancora nel futuro o
che c'è ma rimane nascosta, ma che in ogni caso muta radicalmente il
senso e l'aspetto delle cose viste. L'immagine si pone come epifania e
apocalisse, manifestazione e rivelazione: è il caso di una splendida
pala d'altare senese, opera di Giovanni di Paolo oggi alla Pinacoteca
Nazionale di Siena, in cui vediamo Cristo umiliato che regge la croce, a
sinistra, mentre a destra, risorto e trionfante giudica vivi e morti,
mostrando le piaghe come trofei. Frammezzo, fra l'imago pietatis e
l'imago gloriae di questa doppia immagine, è raffigurato lo
Spirito, operatore dei cambiamenti che conducono alla vita eterna (tra
cui quello eucaristico: il cambiamento del pane e vino nel corpo e
sangue di Cristo). La colomba è collocata all'apice dell'immagine, sopra
il punto in cui il sacerdote, consacrando, invoca lo Spirito Santo sui
doni, ed è come se scendesse contemporaneamente su Cristo sofferente per
risuscitarlo alla gloria, e sul pane e vino per transustanziarli.
Quando si celebrava la messa davanti a quest'immagine, l'ostia e il
calice innalzati tra le due raffigurazioni di Cristo comunicavano che,
come Cristo è risorto nello Spirito e sotto lo stesso Spirito il pane
diventa suo corpo, anche noi che ci nutriamo di questi elementi siamo
destinati a mutare forma. "Come abbiamo portato l'immagine dell'uomo di
terra, così porteremo l'immagine dell'uomo celeste: in un istante, in
un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba noi saremo trasformati" (1
Corinzi, 15, 49-52).
In modo analogo, il Crocifisso di Vangi
ripropone l'intuizione dell'autore dell'Apocalisse, che colloca la sua
visione della fine delle cose nel contesto della domenica e di
un'esperienza mistica della liturgia. "Rapito in estasi nel giorno del
Signore - dice - udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che
diceva: quello che vedi, scrivilo in un libro" (Apocalisse, 1,
10). Giovanni vide sette candelabri d'oro in mezzo ai quali si muoveva
il sommo Sacerdote dei beni futuri, simile a un figlio d'uomo ma con gli
occhi fiammeggianti come fuoco e che teneva nella destra sette stelle (Apocalisse,
1, 12-15).
Il nuovo Crocifisso sopra l'altare riporta
l'Eucaristia a questo contesto escatologico. Tra i santi della città e
diocesi (Prosdoscimo, Giustina, Antonio, Gregorio Barbarico) scolpiti
dallo stesso Vangi in atteggiamenti ruminativi, ora esplode Cristo. La
comunione dei santi - la comunione dei padovani con questi quattro santi
patroni, la comunione di ogni credente con coloro che lo hanno
preceduto - ora ritrova il suo centro in Lui, nel suo corpo e sangue
offerti sulla croce.
Così ora nel presbiterio del Duomo di Padova
contempliamo il Vivente rivelato nella comunione dei santi, sopra un
altare che sembra la pietra sepolcrale "rotolata via" dagli angeli che
la sostengono, esprimenti una sorta di tripudio cosmico. Perché, a
differenza del Cristo del Borgognone a Milano, in cui predominano
i segni dell'umiliazione - e a differenza dell'altro grande crocifisso a
Padova, quello di Donatello all'altare del santo - qui è il trionfo di
Cristo che viene proclamato, la gloria della sua vita nuova. Scriveva
infatti Vangi nel 1999, per l'inaugurazione del Crocifisso: "Ho cercato
di esprimere tramite gli occhi aperti la vita, la vittoria di Cristo
sulla morte, la risurrezione e quindi la Parusia, la gloria finale
promessa per tutti da Gesù nel passo di Giovanni: "Quando sarò
innalzato attirerò tutti a me". Il Signore qui non è inchiodato ma quasi
appoggiato alla croce, con le braccia spalancate non nel supplizio ma
piuttosto in quest'abbraccio redentivo per l'intera umanità".
Le mani
del Salvatore non inchiodate ma "appoggiate" alla croce, i chiodi
diventati punti di luce: fa pensare alla mistica tavola conservata
nella stessa Cattedrale, nella sagrestia dei Canonici, opera di
Nicoletto Semitecolo raffigurante il Figlio crocifisso davanti al Padre,
ma senza la croce. Le mani del Figlio, con i segni della sua
obbedienza, sono semplicemente "appoggiate" alle mani estese del Padre
che lo sostiene con il suo amore. Le parole di Cristo sulla Croce, "Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?", vengono così riportate al
loro contesto d'origine: al salmo che sia Gesù che coloro che
l'ascoltarono conobbero, e che, dall'iniziale senso d'abbandono, porta
all'affermazione conclusiva che Dio "non ha disprezzato né sdegnato
l'afflizione del misero, non gli ha nascosto il suo volto ma, al suo
grido d'aiuto, lo ha esaudito" (Salmi, 21, 25). E poi le ultime
parole: "Io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà
del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno: "Ecco l'opera del Signore"" (Salmi,
21, 30-32).
Questo Cristo sulla croce azzurra è già in
cielo, Signore delle generazioni future, Redentore del terzo millennio,
Salvatore di popoli nascituri. Nel mistero del corpo crocifisso che,
splendente e senza sofferenza, vive davanti al Padre, Vangi rivela l'Uno
di cui l'Antico Testamento affermava: "Il suo splendore è come la
luce, bagliori di folgore escono dalle sue mani: là si cela la sua
potenza" (Abacuc, 3, 4).
(©L'Osservatore
Romano , 9 aprile 2009)
|