La tradizione cristiana denomina opere di misericordia
alcuni gesti e azioni concrete che il cristiano è invitato a compiere a favore
del prossimo nel bisogno. La formulazione è quasi infantile, da vecchio
catechismo polveroso. E tra le opere, a livello popolare, erano notissime
soprattutto quelle "corporali" , un po' meno quelle "spirituali". In particolare
proprio quelle spirituali, poiché alle povertà di carattere economico si sono
aggiunte quelle immateriali, attinenti alla situazione relazionale e spirituale
delle persone: chi ha perso il senso della vita, chi si sente solo e smarrito,
chi vive nel dubbio e nell'incertezza, chi è afflitto da frantumazione morale,
chi ha abbruttito la sua dignità...
L'appeal delle opere è, ormai, così scarso che neppure
nelle prediche tradizionalistiche vi si ricorre più. Tutti utilizzano termini
via via di moda: condivisione, solidarietà... Ma le opere, nella loro geometria
semplificatoria e non sfi orata dal dubbio (qui il corpo, là l'anima; qui i bisogni
materiali, là quelli spirituali, tutto compreso nei magici e mnemonici "sette
più sette), rappresentano davvero, con sconcertante puntualità, l'elenco delle
necessità umane fondamentali di sempre. Solo la quattordicesima opera ("pregare
Dio per i vivi e per i morti") sottintende una fede religiosa. Tutte le altre
indicano un atteggiamento etico realistico: di fronte alle componenti brutte
dell'esistenza umana, bisogna sporcarsi le mani.
Per ogni realtà scomoda, un gesto preciso da compiere:
non una conferenza da tenere, o parole (come queste) da scrivere.
Ma opere, cioè azioni concrete, in risposta a bisogni
concreti, misurate su di essi, così come vengono colti nell'immediatezza dei
rapporti quotidiani.
Sono gesti e azioni di bontà che rendono diversa la vita
riscattandola dal male dell'indifferenza, dell'egoismo, della chiusura in sé. Immettendovi
quei germi di bene che lo Spirito Santo suscita nell'animo umano, soprattutto a
contatto con la sofferenza.
Le opere di misericordia corporale e spirituale recitano:
dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi,
visitare i carcerati, ecc. E ancora: consigliare i dubbiosi, ammaestrare gli
ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese...
Di fronte a un corpo ed
a una vita che soffre, qualunque sia la ragione, se amo vivere devo fare
qualcosa, perché quel corpo funziona come il mio, quella vita vale quanto la
mia, e star male non piace a nessuno. Al mio cuore ed alla mia intelligenza la
capacità di giudizio per scegliere come.
Le testimonianze, in ogni tempo e luogo, di persone che
hanno risposto a questi appelli indicano più o meno lo stesso percorso: l'urto
emotivo di un incontro personale, il soccorso immediato, la percezione che
tantissimi altri sono nella stessa situazione, l'impegno a realizzare un
progetto strutturato e vasto, lo scoraggiamento di fronte ad ogni sorta di
ostacoli, la consapevolezza che è "una goccia nel mare", il tradimento dell'ispirazione
genuina della propria opera da parte di chi la prosegue. Fino a che qualcuno,
in un altro t empo e in un altro luogo, ricomincia.
Il percorso sembra perciò andare dall'individuale al
sociale, al politico. A volte si fa a nome di Dio, a volte Dio lo si trova in
fondo. Ma nell'arco tra l'inizio e la fine molta gente è stata meglio, molte
situazioni sono state risolte.
Chiunque sta dentro queste situazioni , prestando cuore
ed orecchie, sa quanto faticoso sia l'ascolto dei fatti altrui, quanto
difficile dare un consiglio, un sostegno, un accompagnamento onesto. È esperienza
comune che molte paure nascono dalla stanchezza e dalla solitudine. E che, a
volte, è sufficiente alleggerirsi di una preoccupazione, parlandone con un'altra
persona, per proseguire rinfrancati.
Le occasioni quotidiane per esercitare queste opere sono
innumerevoli.
Il segreto è forse perdere
l'abitudine al discorso futile, per andare alla radice del bisogno di
comunicazione. E, venire incontro alla sete di parole e di azioni vere.
Esse hanno in vantaggio di essere accessibili ai
cristiani e agli uomini e alle donne di buona volontà di ogni condizione, non
esclusi i poveri, e di privilegiare il rapporto interpersonale. La pratica
delle opere di misericordia non giova soltanto a coloro che ne sono i
destinatari. Essa promuove più di quanto non si pensi una nuova qualità della
vita ed il rinnovamento della società dal di dentro. La "carità verso il
prossimo, nelle forme antiche e sempre nuove delle opere di misericordia
corporale e spirituale, rappresenta il contenuto più immediato, comune e
abituale di quella animazione cristiana dell'ordine temporale che costituisce l'impegno
specifico dei fedeli laici" (Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 1988). Esse
hanno dunque un rilievo particolare anche oggi. La "cattedra degli ultimi" deve
provocare ogni uomo e ogni donna ad accoglierne le urgenze e gli appelli
ineludibili e a tradurre la veridicità del credere, cosicchè la stessa
cattedra, se inascoltata, non si traduca, alla fine, in tribunale (Mt, 25).
Tradurre pastoralmente le opere di misericordia può
sembrare un esercizio di poco conto. Ma non si tratta di una semplice "ritinteggiatura",
anche ben fatta, ma di appoggiare su basi sicure il "ritorno dall'esilio" di
ogni opera spirituale e materiale. L'esilio da cui debbono uscire è duplice: da
un lato deve essere l'intera comunità cristiana a farsi interprete e
protagonista delle opere di carità; dall'altro, si rende necessaria un'azione
comune dei cristiani, oltre quella individuale, chiamati a diventare "cinghia
di trasmissione" tra quanto ascoltano e celebrano e quanto amano in un mondo
che, forse, sta conoscendo la più bassa soglia di solidarietà.
Tratto da: Italia Caritas, giugno 2008
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